More catch up on previous events, this time an interview with La Repubblica in the wake of the death of al Qaeda leader Ayman al Zawahiri.
Al Zawahiri, Pantucci: “La leadership di al Qaeda è stata completamente decimata”
di Enrico Franceschini
“Un successo dell’intelligence Usa. La minaccia del terrorismo non scompare ma il gruppo dirigente responsabile dell’attentato dell’11 settembre è stato eliminato”, dice l’esperto di terorrismo del Royal United Services Institute

“Eliminare al Zawahiri chiude un capitolo nella storia di al Qaeda, anche se il libro del terrorismo rimane aperto”. È il giudizio di Raffaello Pantucci, esperto del Royal United Services Institute, il più antico think tank per i problemi della sicurezza, autore del saggio We love death as you love life (Noi amiamo la morte come voi amate la vita), un’inchiesta sui terroristi della porta accanto in Gran Bretagna, e uno dei massimi specialisti in materia. “Ora la leadership di al Qaeda è stata completamente decimata”, dice in questa intervista a Repubblica.
Come giudica l’operazione annunciata dalla Casa Bianca, Pantucci?
“È chiaramente un successo dal punto di vista americano. Dimostra la capacità di eliminare un capo terrorista in un luogo ostile in un momento scelto da Washington con la garanzia di poter ricorrere ai droni, quindi con la certezza di colpire la persona giusta. Per Osama bin Laden, l’America dovette mandare i commandos delle forze speciali, perché non era sicura della propria intelligence. Stavolta invece sì, significa che l’intelligence è migliorata”.
Che conseguenze avrà nella lotta al terrorismo?
“A mio parere chiude un capitolo su al Qaeda. La minaccia del terrorismo non scompare e può sempre riemergere in qualche modo, la rabbia contro l’Occidente rimane, però il gruppo dirigente responsabile dell’attentato dell’11 settembre e di tanti altri ha perso il suo centro, è stato decimato. Il libro del terrore è ancora aperto, ma un capitolo sembra chiuso”.
Recentemente Al Qaeda aveva rialzato la testa?
“Non in termini di attentati specifici, ma negli ultimi tempi era cresciuta la retorica, Zawahiri lanciava minacce all’India e ad altri paesi, incitava a continuare la lotta, sostenendo che il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan dimostrava che si poteva sconfiggere l’Occidente”.
Zawahiri aveva appunto ottenuto rifugio a Kabul, proprio come bin Laden: in Afghanistan allora dal 2001 a oggi non è cambiato niente?
“Sembrerebbe proprio così, purtroppo, ma la presenza di Zawahiri era già stata segnalata in luglio da un rapporto dell’Onu, il che vuol dire due cose: o la sua presenza non era un segreto ben tenuto o tra i talebani c’era chi aveva interessa a rivelarla. L’impressione è che i talebani di oggi siano più divisi, e con più problemi al proprio interno, rispetto a quelli andati al potere vent’anni fa: questo è cambiato”.
Le uccisioni mirate, da parte americana e non solo, suscitano critiche: sono un’opzione valida nella lotta al terrorismo?
“Io sono del parere che in assoluto sarebbe meglio catturare i terroristi e processarli. Ma stiamo parlando di gente che vive in nazioni ostili, aiutati o protetti dal governo locale e talvolta sarebbe impossibile catturarli. Nel caso di Zawahiri, inoltre, non sembrano esserci stati danni collaterali. Nell’agosto di un anno fa, l’America rispose al grande attentato all’aeroporto di Kabul con un attacco che doveva eliminarne gli autori ma, come si è poi saputo, colpì e uccise per errore una famiglia innocente. Stavolta gli Usa erano sicuri di non sbagliare”.
Si dice che morto un capo se ne fa un altro, ma eliminarli ha anche un valore deterrente?
“Sospetto di no, come deterrenza non funziona se ci sono militanti altrettanto fanatici. Ma funziona nel danneggiare un gruppo terroristico: un leader ha conoscenza e carisma. Una volta eliminato il capo, non è facile trovarne un altro con le stesse capacità”.
Azioni del genere fanno alzare i consensi verso il leader che le ordina, almeno per un po’: il presidente Biden avrà agito anche con un occhio al voto di mid-term?
“Non credo. Certo, esiste sempre l’idea che, se un leader ha problemi interni, un’azione in politica estera può distrarre l’opinione pubblica e rilanciare un politico facendolo apparire forte e determinato. Ma a parte che le elezioni di mid-term sono ancora lontane, operazioni di questo tipo richiedono una lunga preparazione e coinvolgono forze speciali e intelligence. Sono questi ultimi a dire al presidente quando è arrivato il momento di agire, non il contrario”.
In generale a che punto è la minaccia del terrorismo islamico ?
“Dipende dove sei. In Africa la minaccia è piuttosto acuta. In Medio Oriente e in Asia esiste ancora, particolarmente in Siria, in minor misura in Iraq, in Pakistan. In Europa è per lo più rappresentata dal fenomeno dei lupi solitari, alcuni ispirati dalle idee di organizzazioni come l’Isis e al Qaeda ma spinti ad agire anche per altri problemi che hanno nella vita, per attirare attenzione su sé stessi. E negli Usa la più grande minaccia ora è il terrorismo domestico, le stragi e le sparatorie compiute da fanatici di estrema destra”.
Visto che Zawahiri era il capo di al Qaeda, quanto è serio il rischio di un attacco di grandi proporzioni come quello dell’11 settembre 2001?
“Non è del tutto impossibile, però oggi è molto più difficile che in passato. Al Qaeda è seguita e scrutinata intensamente dai servizi di intelligence e antiterrorismo. Altri gruppi puntano i loro attacchi su obiettivi più regionali, in Africa o in Medio Oriente. Organizzare un attentato contro l’Occidente sulla scala dell’11 settembre richiede un livello di preparazione che adesso sarebbe molto difficile da nascondere. Ciò non esclude che qualcuno ci provi o speri di provarci, per cui la guardia va tenuta sempre alta”.